Quando uscirà questo articolo altra acqua sarà passata sotto i ponti e molto probabilmente ci saranno sul tavolo nuovi accadimenti, tali da fornire ulteriori spunti di riflessione. L’elezione di Trump, la valanga delle decisioni subito prese dal tycoon, la smania di far presto e di apparire come l’unto del signore potrebbero portarci nuove ‘sorprese’. Detto questo, cerchiamo di capire cosa si muove sul fronte della guerra in Medio Oriente, senza dimenticare cosa hanno comportato questi mesi di guerra in termini di sofferenze, di morti, di distruzioni, di attacchi agli operatori della sanità e ai giornalisti uccisi a centinaia per occultare quanto avveniva nella striscia.
Non c’è dubbio che un primo dato che ci viene offerto dalla tregua firmata domenica scorsa – e implementata dal primo scambio di prigionieri – è la volontà dello stato di Israele di spostare il conflitto, per ampliarne il controllo, in Cisgiordania. L’operazione ‘Muro di ferro’, gli eventi di Jenin, i bombardamenti sui campi profughi, il via libera dato alle bande dei coloni nella distruzione dei villaggi palestinesi, sono il segno che la politica di edificazione della Grande Israele sui territori biblici intende svilupparsi in tempi brevi fino all’integrazione dei territori occupati con la guerra del 1967 e non solo, superando persino i vecchi piani di spartizione del Medio Oriente.
Se fino all’attacco di Hamas del 7 ottobre – che ricordiamo ha provocato la morte di 1143 vittime israeliane (767 civili e 376 militari) e di oltre 1600 miliziani palestinesi – la politica del governo si era orientata in direzione di un espansionismo lento, basato sull’incremento degli insediamenti, sull’allontanamento dei nomadi, sul rafforzamento dei muri di divisione, sull’esproprio di terreni e di case, soprattutto a Gerusalemme est, a favore dei coloni – in modo da non urtare troppo la suscettibilità, del tutto parolaia, degli organismi internazionali, compresi la maggior parte dei paesi arabi – da allora in poi tutto è cambiato. Israele è passata dichiaratamente e fortemente all’offensiva secondo il principio che è meglio prevenire le minacce piuttosto che limitare a difendersi. Debordando oltre le alture del Golan, occupato anch’esso nel corso della guerra del 1967 – e dove sono presenti insediamenti coloniali – l’esercito si è spinto a poche decine di chilometri da Damasco prendendo il controllo di alcune aree, di importanza strategica, sul Monte Hermon. Non solo. L’aviazione di Tel Aviv sta sistematicamente distruggendo le infrastrutture militari e le industrie di produzione degli armamenti in Siria per prevenire la possibilità che un governo islamico radicale, sicuramente non amico di Israele, possa costituire una futura minaccia. Un’azione questa che diventerà sempre più pressante se Trump darà corso a quanto affermato prima dell’assunzione del potere a Washington, e cioè che gli USA non sono interessati a quanto succede in Siria dopo la cacciata di Assad. In questo quadro bisognerà capire le conseguenze della disdetta dell’accordo di investimento sulla gestione del porto di Tartus sul Mediterraneo siglato con i russi nel 2019 e che avrebbe avuto validità per 49 anni.
Lo sguardo di Israele è rivolto anche alla Giordania, dove il regno hascemita, un fedele alleato dell’occidente e che ospita più di due milioni di rifugiati palestinesi, registra una crescente opposizione interna. Il rafforzamento della linea di confine sul fiume Giordano diventa quindi imprescindibile per Tel Aviv, così come il totale controllo sulla omonima valle e soprattutto delle sue acque che, guarda caso, nascono proprio dal Monte Hermon. Per quanto riguarda il Libano, invaso per ben tre volte a partire dal 1948, dopo aver colpito duramente Hezbollah, l’impegno di Netanyahu è impedire che riesca a ricostituire la sua forza anche se l’elezione a presidente del generale cristiano-maronita Aoun, comandante in capo delle Forze armate libanesi, con il favore di tutti i contendenti, dovrebbe rappresentare una garanzia per Israele che comunque mantiene i suoi scarponi nel territorio. Ma il vero avversario di Tel Aviv è l’Iran del regime islamico degli ayatollah, contro il quale è rivolta tutta la sua attenzione. Bombardamenti mirati per colpire le capacità di produzione dei missili terra-aria, distruggere il sistema di difesa anti aerea, eliminare i capi militari, condotti con l’ausilio e il sostegno degli USA e con l’acquiescenza di Giordania e Arabia Saudita, sono stati finora gli strumenti per contenere la volontà espansionistica di Teheran nell’area. Liquefatto il regime del fedele alleato Assad in Siria, ridimensionata Hezbollah in Libano, non rimane agli ayatollah – perennemente alle prese con una resistenza interna di tipo carsico, ma non per questo meno preoccupante – che concentrarsi sul rafforzamento delle relazioni con Mosca e sull’accelerazione dei progetti nucleari, proprio quei progetti che sono nel mirino di Israele e USA e che potrebbero essere il prossimo obiettivo, se Trump ritenesse che l’opzione militare sia quella vincente. Quello che è sicuro è che Israele, da solo, non ha la forza di sconfiggere l’Iran e che il sostegno degli USA è assolutamente fondamentale, come lo è stato in tutti i frangenti in cui Tel Aviv è ricorsa alle armi. Si tratta allora di capire bene quali sono gli obiettivi per l’area dell’attuale presidenza americana. Probabilmente Trump – che, ricordiamo, ha subito tolto le moderate restrizioni alle forniture di armi all’esercito israeliano insieme alle sanzioni ai coloni colpevoli di reati – insisterà sull’ampliamento degli accordi di Abramo, promossi sotto il suo primo mandato, coinvolgendo l’Arabia Saudita in primis nell’ottica di un partenariato economico e militare con Israele in funzione anti iraniana. Ma come questo potrà avvenire senza una soluzione della questione palestinese è assai arduo da immaginare, soprattutto ora, dopo la distruzione sistematica della striscia di Gaza e i massacri indiscriminati dei gazawi. Ed è quello che temono Netanyahu e i suoi; è per questo che si affrettano a fare più delitti possibile, appoggiandosi anche, come a Jenin, al sostegno dell’Autorità Nazionale palestinese che collabora con i suoi poliziotti e le sue spie ad individuare i resistenti armati all’occupazione militare sionista, sperando di ricavarne qualche forma di ricompensa in termini di potere nel progetto di ristrutturazione di Gaza e dei territori della Cisgiordania.
Pare che sfugga a questi ultimi che la fase che si sta vivendo in Palestina è il tentativo di compimento del lavoro iniziato nel 1948, imperniato sulla sovranità di più territorio possibile e sull’espulsione di più palestinesi possibile, accompagnato dal disegno, ormai palese, di costruzione della Grande Israele anche al di fuori dei confini biblici. E’ questa la fase matura del sionismo così come storicamente si è dato, e che, insieme al massacro genocida della popolazione e al bombardamento sistematico delle infrastrutture a Gaza (scuole, università, ospedali, strade, più dell’80% delle abitazioni abbattute, lo sradicamento degli alberi, la distruzione dei pozzi d’acqua, l’inquinamento delle falde acquifere, l’abbattimento deliberato degli animali), a Gerusalemme Est è arrivato a sviluppare il progetto di integrazione forzata dei giovani studenti palestinesi operata grazie alla riscrittura dei programmi scolastici in chiave sionista e alla censura della storia e della cultura araba locale, sia essa musulmana che cristiana. Rientrano in questo anche le politiche di assistenza alla popolazione palestinese che, sempre a Gerusalemme Est, prevedono lo smantellamento e la messa fuori legge delle strutture dell’UNRWA (l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso) e la loro sostituzione con organismi israeliani. In tal caso dieci scuole, un centro di formazione professionale e tre centri sanitari gestiti dall’UNRWA e che coinvolgono 63000 rifugiati registrati passerebbero di mano; per non parlare poi della stessa sede dell’Agenzia nel quartiere Sheikh Jarrah di Gerusalemme, già oggetto di attacchi incendiari, la cui esistenza è messa in forse a fronte di progetti di esproprio e di trasformazione in appartamenti per coloni israeliani. Mettere in discussione l’esistenza dell’Agenzia a Gaza e nei territori occupati vuol dire colpire duramente le possibilità di aiuto alla popolazione; secondo il quotidiano israeliano Haaretz “solo l’UNRWA ha l’infrastruttura per distribuire gli aiuti nella scala necessaria”; e se i 2/3 dei camion che portano i beni di prima necessità a Gaza sono di competenza dell’Agenzia, Haaretz ricorda che durante la guerra questa ha garantito i 2/3 di tutta l’assistenza sanitaria primaria, cibo a quasi due milioni di persone, servizi igienico-sanitari e idrici pagando un costo salato con la morte di 266 operatori. Colpire l’UNRWA vuol dire non solo peggiorare la situazione materiale dei palestinesi, ma togliere ai profughi e ai rifugiati ogni protezione internazionale. Accompagnano questo disegno le misure prese contro le ONG umanitarie sottoposte a crescenti misure restrittive e ad espulsioni. Un altro passo verso il tentativo di liquidazione del problema palestinese, risultato di un colonialismo di tipo insediativo così come lo storico israeliano Ilan Pappè ha definito l’originale progetto sionista.
Un tentativo che però difficilmente andrà in porto.
Nonostante la tracotanza di Netanyahu nell’affermare il successo strategico dell’azione bellica contro Gaza, Israele non ha portato a casa i risultati che voleva. Le dimissioni di alti gradi dell’esercito, le critiche sviluppate nei confronti del governo, le lacerazioni interne al paese in seguito alla gestione del tema degli ostaggi, messo in secondo piano rispetto alla volontà di distruzione del nemico, il rifiuto degli ebrei ortodossi – gli Haredim – ad arruolarsi, l’immagine di un esercito definito etico che si macchia di crimini di guerra, pesano e peseranno sempre di più innescando conflitti. Anche il tentativo di assecondare i coloni in Cisgiordania dando continuità territoriale agli insediamenti israeliani e riducendo quindi le località palestinesi a tante piccole Gaza circondate da muri, fornitrici a basso costo di manodopera, difficilmente andranno in porto se non a costo di enormi massacri, in considerazione della resistenza, violenta e non violenta, della popolazione.
Hamas intanto proclama la vittoria a Gaza e incita alla rivolta la Cisgiordania. Per Israele l’uccisione di 20mila miliziani di Hamas e degli altri gruppi combattenti giustifica pienamente l’assassinio di almeno altre 30mila persone e il ferimento di 110mila, prevalentemente bambini e bambine, donne, uomini. Per Hamas è un costo da pagare per rimettere in discussione i piani di annessione di Tel Aviv e le sue volontà espansioniste a scapito dei palestinesi.
La tregua in atto è solo una pausa in un conflitto che non avrà fine fino a quando non si rimetteranno in discussione le sue motivazioni profonde, le quali affondano in primis nel colonialismo insediativo dei sionisti e poi nella manipolazione del proletariato arabo da parte dei poteri religiosi e delle borghesie nazionali. La vicenda del Libano è illuminante a proposito: 400mila profughi palestinesi sono rinchiusi in 12 campi, senza diritti e senza che Hezbollah, nonostante la sua influenza nel paese, abbia fatto alcunché di significativo per la loro promozione sociale.
La stessa azione iraniana nell’area – armando e sostenendo le forze combattenti a Gaza e in Libano – non ha mai avuto l’intenzione di scatenare un conflitto diretto con Tel Aviv, ma solo quella di esercitare una pressione su Israele e, tramite essa, sugli USA per strappare qualche trattativa sulle sanzioni. Per ogni governo, per ogni classe possidente, il nemico reale è sempre il proletariato che va diviso in ogni modo possibile, su base etnica piuttosto che religiosa, alimentando il nazionalismo. Se l’auspicio è sempre quello dell’unità del proletariato nella lotta di liberazione politica e sociale da ogni potere di classe, dobbiamo avere ben chiaro quali sono le difficoltà che incontriamo a rendere praticabile questa prospettiva. In Israele un sistema educativo molto restrittivo in chiave sionista indottrina fin dall’infanzia la popolazione inducendo mentalità fanaticamente razziste ed estremiste, il lungo servizio militare fa poi il resto e la disumanizzazione del palestinese fa ormai parte del DNA israeliano. L’opposizione a questo stato di cose, all’apartheid vigente nei confronti dei palestinesi, al genocidio è ancora purtroppo molto limitata e si basa su individui che incontrano crescenti difficoltà nell’operare. Ma se non si riesce a costruire un polo in grado di rompere questa situazione e a costruire relazioni tra il pur piccolo proletariato israeliano e i ben più numerosi proletari arabi la situazione non riuscirà a cambiare. Sull’altro fronte questa situazione fa si che le giuste rivendicazioni di libertà politiche e sociali vengano indirizzate contro il popolo israeliano in toto per impedire qualsiasi possibile saldatura tra gli sfruttati e le sfruttate. Ed è per questo fondamentale che continuino e si sviluppino movimenti su scala internazionale in grado di svelare la realtà di questo conflitto e le sue possibili risoluzioni, a partire dal cessate il fuoco, dal ritiro dalle truppe da ogni territorio occupato, dalla solidarietà nei confronti della popolazione assassinata e affamata, dalla distruzione di ogni sistema di apartheid e di differenziazione etnico – religiosa.
Massimo Varengo